L’impronta ecologica dell’abbigliamento è molto pesante: anzi, tra le peggiori in assoluto. Mentre grandi e piccoli marchi corrono ai ripari, nascono nuovi modelli di abbigliamento sostenibile. Vediamo se è possibile e come un vero negozio “green”.
Sommario
- I dati di base: l’impronta ecologica dell’abbigliamento
- Fast fashion, gioie e dolori del settore moda
- Moda ecosostenibile: si può fare!
- Verso un negozio “green”
I dati di base: l’impronta ecologica dell’abbigliamento
Greta Thunberg ce l’ha insegnato: il nostro pianeta è in grossa crisi. Il cambiamento climatico sta già provocando danni gravi e minaccia di farne di peggiori, soprattutto a causa nostra. Il modello economico attuale non sembra più sostenibile e occorre trovare nuove soluzioni. Ma che c’entra tutto questo con la moda, l’abbigliamento e i negozi? C’entra eccome.
L’industria tessile e tutto il mondo del fashion sono infatti tra i principali inquinatori del pianeta Terra. Impronta ecologica dell’abbigliamento? Molto pesante, a tutti i livelli della filiera.
- Le materie prime impiegate per produrre i vestiti: sia i tessuti organici sia quelli sintetici hanno un forte impatto ambientale. Il cotone per esempio richiede grandi quantità di terra e di acqua per la sua produzione. Le fibre sintetiche, neanche a dirlo, sono spesso ottenute da derivati del petrolio.
- I processi di lavorazione. I trattamenti dei tessuti con coloranti e altre sostanze (si pensi all’industria conciaria) non sono certo tra i più ecofriendly. Nei casi peggiori, le sostanze utilizzate possono avere effetti tossici importanti.
- Produzione e distribuzione. La logistica che si muove con l’industria dell’abbigliamento è imponente. I processi di lavorazione per i grandi marchi sono su scala globale, e richiedono quindi lo spostamento delle merci da un capo all’altro del mondo.
- Il consumo. I capi di abbigliamento che arrivano in negozio o direttamente a casa (online shopping) sono in molti casi di difficile smaltimento. Del resto, la moda si basa su un continuo ricambio dei vestiti: spesso allora i capi si usano 1-2 volte e vengono messi da parte.
Insomma, le questioni delicate da affrontare per il settore sono molte. Abbiamo visto qui brevemente solo quelle legate all’impronta ecologica dell’abbigliamento, ma ce ne sono di altre. Il modello è intensivo per i tessuti come per le persone, e lo sfruttamento della manodopera, specie nei Paesi in via di sviluppo, è un problema reale. Si parla per questo anche di moda etica, per sottolineare un altro punto di arrivo nel ripensamento dei modelli attuali di produzione nel settore.
Tutto ciò detto, però, cosa si può fare, e soprattutto chi? Il punto finale della catena, per esempio, il negoziante, può davvero intervenire su processi così complessi?
Andiamo per gradi, ma intanto, per rendervi conto meglio della situazione, date un’occhiata ad alcune interessanti infografiche messe a punto dalla Ellen MacArthur Foundation, autorità in materia di moda sostenibile.
Fast fashion, gioie e dolori del settore moda
Quando si parla di inquinamento nel campo dell’abbigliamento, l’imputato principale si chiama fast fashion. È il modello di moda veloce dei grandi marchi: Zara, H&M e altri. Negli ultimi anni hanno democratizzato il mondo del fashion, per un verso, portando la moda veramente nelle case di tutti. Per l’altro verso, hanno affermato un modello basato sul prezzo accessibile e il consumo veloce. Le conseguenze dal punto di vista ambientale sono evidenti, e i marchi stessi se ne sono accorti. H&M, per esempio, ha un dipartimento “green” che finanzia e sviluppa in-house progetti per una moda ecosostenibile. Ma tutti i marchi principali ormai cercano soluzioni per conciliare business ed ecologismo. Del resto, non va sottovalutato l’appeal economico dell’ecofashion e le ricadute positive per i brand di un atteggiamento più responsabile: green washing, no?
La moda è per statuto poco ecosostenibile: cambiare vestito in base a estro e tendenze non è certo una strategia “zero-waste”, a zero rifiuti. Del resto, molto si può fare e si sta già facendo per ridurre gli sprechi e ottimizzare le risorse. È un processo che coinvolge, come si è visto, tutti gli attori della filiera moda, dal fornitore di materie prime a chi lavora i tessuti, fino a chi prepara gli imballaggi.
E il negozio? In un certo senso è il collettore finale del prodotto abbigliamento, e come tale spesso segue le procedure del marchio cui è affiliato. Succede con il franchising, dove inchieste recenti hanno evidenziato grossi problemi nello smaltimento dei vestiti invenduti. Per esempio il caso Burberry negli anni passati ha destato un certo scalpore.
Piccoli negozi e atelier hanno da questo punto di vista maggior margine di manovra, ma le alternative variano in base alla qualità del prodotto. Per questo parlare di abbigliamento sostenibile vuol dire ripensare tutti i passaggi della filiera produttiva.
Controllo o scelta dei materiali e dei trattamenti in funzione del possibile riutilizzo o smaltimento del capo. Molti tessuti compositi sono difficili da riciclare (spesso vengono riutilizzati per panni e stracci) a meno di fare bricolage. Anche l’uso di determinati coloranti e additivi chimici complica il “fine vita”: molte sostanze con cui viene trattata la stoffa ne impediscono il riutilizzo. Il riciclaggio tout-court, per esempio nei mercatini, ha pure i suoi problemi e non è sempre possibile.
Insomma anche i più volenterosi hanno le loro beghe, ma sono già disponibili soluzioni interessanti.
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Moda ecosostenibile: si può fare!
Contro catastrofismi e apocalissi previste, le idee creative per alleviare l’impronta ecologica dell’abbigliamento sono già in circolazione. Proviamo a suddividerle qui in gruppi.
Tessuti e stoffe 100% ecosostenibili
È l’ambito più affascinante e anche divertente. Negli anni sono stati realizzati vestiti dai materiali più disparati, e la ricerca è incessante. Oltre alle certificazioni sul cotone biologico, una tendenza interessante è quella dell’“abbigliamento fruttato”, ovvero dei filati ricavati dalla frutta. Abbiamo un’eccellenza nostrana nella catanese Orange Fiber, che realizza filati dalle bucce d’arancia e ha sviluppato partnerships con Ferragamo e H&M. Chi preferisce l’ananas agli agrumi può rivolgersi invece ad AnanasAnam, azienda inglese che ha brevettato il Piñatex® dalle foglie del frutto. In entrambi i casi i tessuti sono prodotti da sottoprodotti della coltivazione (bucce e foglie) che altrimenti andrebbero nel cassonetto.
Modelli circolari di produzione
La moda ecosostenibile ripensa l’intera catena di distribuzione. Il modello è quello dell’economia circolare: dalle materie prime al prodotto finito e viceversa, verso il rifiuto zero. Le due aziende sopra descritte sono un ottimo esempio di questo modello. Naturalmente quanto possibile per filiere corte è più difficilmente realizzabile per i marchi più grandi, ma ci si sta lavorando.
Attenzione ai singoli elementi della filiera
Oltre alla scelta dei tessuti e delle lavorazioni, si punta anche ad altri elementi della filiera. È il caso degli imballaggi, che con lo shopping online sono aumentati in modo esponenziale. Essendo composti spesso di materiale non riciclabile, è ovvio che rappresentino un problema ambientale. Soluzioni creative: impiego di materiali 100% riciclabili, come anche il riutilizzo dell’imballaggio. Soluzione drastica: rinuncia all’imballaggio e ritiro in punto vendita. Lo fanno già diverse catene di abbigliamento con il “click-and-collect”: ordini online, ritiri in negozio. Pare funzioni anche come veicolo promozionale.
Altri usi “creativi”: riciclo, riuso, on-demand
Come si diceva, vestiti 100% riciclabili ne esistono pochi, ma qualcosa si muove anche qui. Per altri versi, un trend è quello dell’uso di materiale riciclato nei capi di abbigliamento: lo fanno, tra gli altri, Adidas e H&M con la plastica.
Per quanto riguarda il riuso, è interessante il modello del fashion rental: in pratica i vestiti in affitto. Ha iniziato Rent the runway circa 10 anni fa, e molte altre aziende si sono accodate: si paga un canone mensile, quindi si scelgono dal catalogo i vestiti, li si usa e li si restituisce. I vestiti vengono lavati, stirati e sono di nuovo pronti a scaffale. Un modello interessante che però impatta molto per i vari giri di trasporto dei vestiti da riutilizzare. Si sta cercando di rimediare con la strategia “click-and-collect” di cui sopra.
Altro sistema ingegnoso è infine quello della produzione on-demand che fa, per esempio, la piemontese Produzione Lenta. L’azienda produce t-shirt, ma lo fa su ordinazione: quando inizia una nuova linea, raccoglie gli ordini online, quindi inizia la produzione. Lavorando su quantitativi esatti, riesce a non avere magazzino né, quindi, eccedenze.
Verso un negozio “green”
Il gestore di punto vendita, come si è visto, è attore non protagonista nel film sull’abbigliamento sostenibile che si sta realizzando. Pure, molte scelte sono a suo carico e, anzi, una riconversione del settore passa anche per un ripensamento del modello di negozio.
Il ritorno del brick-and-mortar store, ovvero del negozio fisico, si accompagna alla sua integrazione in una strategia omnichannel. Se ne parlava tra l’altro qui. In termini di impatto ambientale, è ovvio che muovere meno merci in giro fa solamente bene all’ambiente, oltre magari a fidelizzare il cliente.
Per altri versi, e paradossalmente, l’abbigliamento sostenibile è di moda, e anche i gusti dei consumatori sembrano orientarsi in questo senso. Intercettare questa domanda è un obiettivo etico ma anche economico: avere in magazzino capi ecofriendly, in sostanza, fa bene all’ambiente e forse anche al portafoglio.
La nuova vita dei vestiti: oltre la coscienza ambientale. Un trend in crescita anche nel Made in Italy è in effetti la maggiore durata dei capi di abbigliamento. In alternativa al modello del fast fashion, diversi brand puntano sulla qualità, con l’obiettivo di far durare più a lungo i vestiti. In parallelo, cresce il mercato dei vestiti di seconda mano, che si rinnova in canali e metodi, e non solo grazie al fashion rental sopra citato. Aggiungere un angolo dell’usato in negozio può insomma non essere una cattiva scelta.
In generale, gli operatori del settore si troveranno a parlare di abbigliamento sostenibile nei prossimi anni, che lo vogliano o no. Dai colossi dell’alta moda ai marchi del fast fashion fino al piccolo negoziante, la questione è sentita e un ripensamento complessivo è già in atto. Difficile liquidare tutto come un’altra… moda, insomma, e meglio attrezzarsi per tempo. Una piccola checklist, per concludere, che si può completare con un buon software gestionale per il negozio come Etos.
- Fornitori. Il controllo di qualità sulle merci in produzione o da ordinare è sufficientemente accurato?
- Materiali. Verificare la sostenibilità ambientale del proprio business, on- e offline (imballaggi ma anche magazzino e smaltimento).
- Business Intelligence. Quali sono, per il proprio settore, le strategie di riduzione dell’impatto ambientale da seguire e fare proprie?
- CRM. Qual è il sentiment della propria base clienti sul tema? Come si può intercettare, se possibile indirizzando la proposta verso i temi dell’abbigliamento sostenibile?
Vedi anche: Email marketing per fashion retail | Customer journey map e analisi dei dati