Community based marketing, community marketing, community commerce… Oh no! Altri termini modaioli e buzzy che promettono miracoli, mentre concretamente smuovono ben poco.
Forse non hai tutti i torti. Magari è per la smania molto made in USA di etichettare tutto, per cui spesso passa per novità assoluta qualcosa che non lo è. Ne parlavamo in un post a proposito di CRM e fidelizzazione: specie in un negozio di abbigliamento, il rapporto diretto ed empatico con i clienti è sempre stato determinante.
E in qualche modo un’evoluzione di questo è il community based marketing. Cioè la pratica dei brand di interagire con gli utenti attraverso condivisione e coinvolgimento attivo. Si può fare con eventi, attività su argomenti di interesse, programmi specifici. Ce ne sono molti esempi ormai e più avanti ne parleremo meglio, intanto però vorremmo rassicurarti.
Fare community commerce non è un nuovo trend da cavalcare a ogni costo. E non serve investire grandi risorse o impelagarsi sui massimi sistemi. Probabilmente, da bravo retailer, hai già una community di riferimento, con cui interagisci per esempio quando cerchi di capirne e assecondare le esigenze.
Qui magari la relazione più che in verticale, tra te e il cliente, è in orizzontale, tra gli stessi clienti. Con lo user generated content sui social media, con attività members-only o in altro modo, il community marketing crea in sostanza uno spazio di dialogo. Sono gli stessi clienti a parlare, confrontarsi e, naturalmente, divertirsi provando i tuoi vestiti, commentando un tuo post o in altro modo.
Si crea così una community. E il word-of-mouth, il passaparola, attira nuovi utenti in maniera naturale e senza forzature.
Per dirla con gli esperti, insomma, si passa da una logica di tipo push a una pull. E il community marketing favorisce questa transizione.
Community marketing: che c’è di nuovo?
Prima di tutto cerchiamo di chiarire un equivoco. Creare una community attorno al tuo negozio è diverso dal cercare like e followers sui social media. Se i social network sono ancora il campo da gioco principale, una strategia di community ci gioca in modo differente.
I tempi di like, trending topic e influencer marketing (almeno quello dei grandi numeri), sembrano tramontati. Ormai da tempo tutte le attività commerciali presenziano massicciamente su Instagram e affini, e sembra che ci si diverta meno. Un po’ come quando alle feste degli adolescenti si presentano i genitori. Questo è tra l’altro uno dei motivi del successo di micro- e nano-influencers, oltre che dell’affermazione di brand ambassador o advocates.
La celebrity che, dall’esterno, viene a sponsorizzare il nostro negozio o qualche prodotto, non sembra insomma funzionare più molto. Più produttivo condividere contenuti tra i propri stessi utenti, in un approccio di comunità, appunto. Quello che vede nel cliente soddisfatto il miglior promoter.
Il community based marketing si affida principalmente a questi super-utenti, ma lo fa o dovrebbe farlo senza forzare. In modo (semi)spontaneo, creando per esempio eventi o spazi di conversazione dove il semplice acquirente può scoprire cosa ha in comune con gli altri. Lo spiega bene Michelle Cordeiro Grant, CEO di Lively:
“Ciò che facciamo è creare momenti euforici in cui le persone interagiscono con altre persone che apprezzano, facendo cose che apprezzano, e alla fine non soltanto condividendo la passione per il nostro brand, ma quasi urlandola!”. [Michelle Cordeiro Grant, Lively]
Tra punto vendita, social media e negozio online
Quello di Lively è un buon esempio, e funziona sia online sia in un negozio “brick-n-mortar”. Lo dicevamo già qualche anno fa: punto vendita, negozio online e social commerce non si escludono ma devono essere integrati. E il tuo negozio può diventare uno spazio di interesse e aggregazione.
I grandi marchi puntano da tempo sulla brand community, creando momenti di incontro nei negozi. E ciò che può sembrare poco autentico se arriva da un mega brand può essere più coinvolgente su scala ridotta. Appunto, con un community marketing a “km0”.
Da un punto di vista utilitaristico, del resto, organizzare eventi in negozio è anche un buon modo per incrementare il foot traffic (e magari le vendite).
Il community commerce è una strategia di medio-lungo periodo, ma alla lunga vincente. Ricordi quello che dicevamo a proposito di fidelizzazione? È molto più semplice convincere all’acquisto chi è già cliente. E al di là di questo c’è la dinamica di mercato attuale, che in particolare nel settore abbigliamento punta su un approccio customer-centrico.
I consumatori più giovani “esigono” esperienze personalizzate e coinvolgenti: il 62% degli Zoomers e il 61% dei Millennials è disposto a pagare qualcosa in più per ottenerle. Personalizzazione significa anche un rapporto più empatico: un capo di abbigliamento è anche un tratto identitario, specie per i più giovani. Un marchio, così, può diventare un punto di riferimento anche valoriale.
Brand come Nike o Adidas (ma in altri campi come non citare Apple) fanno da tempo marketing, più che sul prodotto, sullo stile che suggerisce. Vestiti e abbigliamento esprimono stili e idee di mondo, e coagulare attorno a questi comunità di persone, più che di utenti, crea coinvolgimento in maniera naturale.
Farlo in maniera organica e coerente sui tuoi canali di comunicazione è la sfida da affrontare.
Qualche buon esempio
Guarda l’immagine sopra. Arriva dalla newsletter di Rapanui, marchio di abbigliamento sostenibile, e parla del Black Friday. A modo suo. Perché da un retailer che fa dell’attenzione all’ambiente e ai suoi prodotti un tratto distintivo, sarebbe strano ricevere maxi-promozioni e inviti alle spese pazze.
L’idea di fondo è quindi coerente con quello che fa il marchio e interessante per chi riceve la newsletter. Che molto probabilmente condivide lo stesso interesse per i temi ambientali. Riciclare e donare invece di acquistare nuovi capi: suona bene, no?
Un esempio di altro tipo: Adidas. Che con l’Adidas Creators Club propone un programma di membership sui generis. Offre, con la partecipazione a giochi, eventi ed altre attività, sconti, prodotti su misura e altri bonus. Ci si diverte, si interagisce online e dal vivo, si condividono momenti dell’attività del marchio (per esempio c’è la possibilità di testare un nuovo paio di scarpe), eccetera eccetera.
L’ultimo esempio è molto più vintage. Una delle tante boutique di vestiti aperte a Londra negli anni ’70. Gestita, però, da Vivienne Westwood e Malcolm McLaren: si chiamava Sex, e impose in qualche anno vestiti ed estetica del punk in tutto il mondo. Aggregando, appunto, attorno a un’idea originale di abbigliamento e look una comunità di entusiasti che la diffusero in giro.
Cosa puoi fare per il tuo negozio, online e non
Beh, forse l’ultimo esempio non è proprio un caso di successo economico, ma rende l’idea. Se i nuovi consumatori sembrano stanchi di abbigliamento massificato, con una proposta ben distinguibile puoi dare loro un’alternativa.
La concorrenza è tanta, competere sul prezzo più basso non è sostenibile. Una proposta chiara e ben distinta, uno Unique Selling Point, è invece un buon punto d’inizio. E attorno a questo USP ruota uno stile che magari condividi con altre persone, dei potenziali clienti soddisfatti. Insomma, il germe della comunità è già qui.
Per metterla più sul pratico, comunque. Per prima cosa cerca di conoscere la tua clientela e prova a coinvolgerla più attivamente. Eventi in-store, attività online, programmi partecipativi nel range che va dal sondaggio di gradimento al contest per lanciare una nuova campagna promozionale, e via di questo passo.
Puoi davvero far diventare il tuo negozio il fulcro di una comunità coesa. E, quindi, oltre a lanciare input, raccoglierli. Perché i tuoi clienti non sono solo consumatori, ma partner nelle tue scelte strategiche.
Specie negli USA, e ne parlava Vogue Business, si sta affermando online un modello di relazione con il cliente che la rivista definisce Zero-Party Data. Con l’utente che offre al retailer informazioni piuttosto che il retailer a cercare di intuirle.
Un po’ è una conseguenza delle modifiche introdotte da Google, con il sostanziale stop ai cookies di terze parti. In questo nuovo cookieless world, diventa importante ottenere informazioni di prima mano, e lo si può fare offrendo maggiore interazione e condivisione.
“Qualsiasi cosa faccia provare a un consumatore un’esperienza di tipo uno-a-uno con un brand avrà sicuramente un futuro in questo settore” [Jared Watson, NYU Stern School of Business]
Cosa possiamo fare noi, con Etos e non solo
Con Etos ti offriamo gli strumenti per pianificare e attuare una strategia più a fuoco. Il nostro software è pensato per il commercio omnicanale: ti aiuta quindi a raccogliere informazioni e gestire attività su tutti i canali in cui operi. Coordinando il punto vendita, l’ecommerce o le interazioni sui social puoi così offrire una customer experience di livello superiore.
Etos è equipaggiato con potenti moduli di Customer Relationship Management e Business Intelligence: ti danno le basi analitiche per capire chi sono i tuoi clienti, cosa fanno, che preferenze hanno. Informazioni preziose, grazie alle quali individuare i minimi comuni denominatori su cui puntare. Per adottare un approccio più personalizzato, proprio ciò che serve per formare una community.
Ma possiamo fare anche di più per te. Abbiamo esperienza pluriennale nella consulenza per retailer e producer del settore abbigliamento, conosciamo il mercato e la realtà concreta degli operatori.
Possiamo allora supportarti nella definizione di una strategia di marketing a tutto tondo. Un piano che comprenda tutti i tuoi canali di comunicazione, tenendo insieme tutto e valorizzando le potenzialità. Una strategia, insomma, che ti aiuti anche a fare community commerce in maniera adeguata.
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